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Il sindaco di Grosseto Antonfrancesco Vivarelli Colonna è uno che nella vita ha combattuto una dura battaglia con il proprio cervello, ad un certo punto il cervello ha issato bandiera bianca, ha infilato la sua roba in valigia ed è partito per la Nuova Zelanda: il classico caso di fuga di cervelli all'estero.

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Meno male che Piantedosi c’è. Lui si che sa valutare e pesare gli interventi dello Stato e dare l’esempio di come le Istituzioni, quelle con la I maiuscola, possono e sanno difendersi dal pericoloso assalto delle folle invadenti traghettate (eufemismo) sulle nostre coste. Lui si che con fermezza ministeriale sa dire quale sia l’atteggiamento e la considerazione giusta davanti alla scelta drammatica di lasciare il proprio paese per cercare di avere una vita più che nuove opportunità giacché dove vivono di vita non si può parlare più. Risuonano forti e stonate le parole di questo signore, che per (dis)avventura è anche ministro dell’interno davanti alla strage di Cutro: “ La disperazione non può mai giustificare condizione di viaggio che mettono in pericolo le vite dei propri figli”. Adesso sappiamo che Piantedosi possiede anche la bilancia, certamente infallibile, con la quale si misura la disperazione della gente. Lui non avrebbe fatto, come la famiglia afgana di cui racconta il reportage dell’inviato de “La Stampa”, una raccolta dei risparmi di famiglia per far fuggire dalla violenza dei Talebani la figlia ed il figlio. Il suo “senso di responsabilità” lo avrebbe portato a trattenere entrambi in quel paese, dove la figlia sarebbe stata costretta, nella migliore delle ipotesi, ad annullarsi nell’oscurantismo ed il figlio chissà..ed appare ancor più grottesco lo scimmiottamento del celebre slogan kennedyano (“non devo chiedermi cosa questo paese può fare per me ma cosa posso fare io per il mio paese” si può ascoltare nell’audio della sua conferenza stampa ) quando si parla di persone che provengono da nazioni nelle quali regna la violenza più brutale, l’intolleranza più assoluta, nelle quali manca la possibilità di una vita dignitosa non solo dal punto di vista econoico ma anche e soprattutto da quello dei diritti umani. Ciò che colpisce (non da oggi) nell’atteggiamento del ministro è l’arrogante sicumera delle sue dichiarazioni. Una cifra che per altro sembra appartenere a tutto questo esecutivo ed a tutta questa maggioranza. Il dubbio non esiste. L’umanissima errata valutazione men che meno. Questo atteggiamento che preoccupa e irrita (a seconda delle sensibilità) diventa però intollerabile davanti a vicende come quella di Cutro. La nota ministeriale, sferrata con imponente prosopopea in tempo reale davanti alle accuse di omesso soccorso lanciate da un medico in diretta tv la sera di domenica (un ex poliziotto da tempo impegnato in azioni di salvataggio, non un agitatore di piazza), le parole pronunciate il giorno dopo, la conferma di scelte come quelle contro le ONG dettate solo dall’ideologia (seppure all’interno di un fenomeno certamente da regolarizzare) considerato che le demonizzate organizzazioni umanitarie trasportano non più del 10/11% dei migranti che costantemente sbarcano sulle nostre coste e dunque solo una impostazione ideologicamente orientata può sostenere che questo sia il problema, tutto ciò testimonia di un atteggiamento complessivo che certamente solletica “la pancia” dell’elettorato più conservatore (parte del quale, chissà in base a cosa, si spaccia pure per cristiano) ma che lascia almeno interdetti. Da domenica sera e per 48 ore non ricordo di aver sentito una sola parola di umana pietà accanto ai proclami, non ho memoria di tweet non dico angosciati ma almeno solidali verso esseri umani che stavano fuggendo da dittature spietate. Ora, secondo quanto ci siamo abituati a vedere dal 25 settembre: retromarcia ! Ma niente potrà cancellare la nostra vergogna per quell'atteggiamento e niente ci può garantire che non si ripeta, identico e spudorato, al prossimo allarme in mare.   

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Ora si fanno i conti ! Ci apostrofava, l’indice minacciosamente alzato, la mamma quando da ragazzini si combinava qualche pasticcio. E indubbiamente di pasticci la politica italiana ne ha combinati parecchi in questi ultimi 15 anni, così tanti da portare in occasione delle recenti consultazioni regionali quasi due italiani su tre a disertare le urne con un costante incremento di coloro che guardano con insofferenza e fastidio alle istituzioni ed a chi le rappresenta. La distanza tra ceti, tra centro e periferie, tra provincia e metropoli, si va allargando tanto che in certi quartieri di Roma l’astensione è arrivata a toccare punte del 75%. Per questa ragione appaiono sempre più stonati i commenti del giorno dopo, sia quelli trionfali della destra (comunque premiata a conferma di un solida capacità di seguito) che, a maggior ragione, quelli meditativi e talvolta assurdamente giustificativi di chi ha perso. Eppure…facciamo i cont, come detto. A leggere i risultati abbandonando le decisive ma forse improprie percentuali calcolate sui soli voti espressi, ci si accorge che hanno perso tutti. Non c’è nemmeno bisogno di fare confronti lontani, basta guardate ai dati delle politiche del 25 settembre, poco più di quattro mesi fa. Ebbene: in Lombardia Fratelli d’Italia ha perso 670.687 voti. La Lega, in margine ai toni trionfalistici del “Capitano”, perde 225.209 voti. Il Partito Democratico conta 343.072 suffragi in meno fino al naufragio della “Ferrari Renziana” scesa da 513.620 consensi a 122.356. Nel Lazio le cifre non sono molto diverse: 331.715 voti in meno per Fratelli d’Italia, 183.080 in meno per il PD, 156.023 il calo di AzioneItalia Viva. Una erosione significativa anche considerando il diverso appeal delle prove elettorali. Eppure il tema, che dovrebbe interrogare con forza una classe politica sempre più autoreferenziale, viene rimosso quasi con fastidio, con qualcuno (per esempio il direttore di Repubblica) che arriva ad incolpare gli astenuti del largo successo (in proporzione dei voti espressi) delle destre. Poi c’è che se la prende con il tempo (il meteo, dico) e infine c’è chi pare rassegnato alla sconfitta. Ma qualcuno che si faccia delle domande sulle ragioni di questa disaffezione ? Qualcuno che arrivi a cogliere i rischi indicibili connessi alla deriva populista e astensionista ? Non sarebbe il caso di cercare di recuperare il contatto con il mondo, con la realtà, con la gente, abbandonando le torri eburnee del potere ? Va da sé che il discorso vale in particolare per le forze della sinistra democratica che sembrano aver abdicato ad ogni speranza, quasi rassegnate al predominio di un avversario che pure si dimostra giorno dopo giorno almeno maldestro se non a tratti decisamente pericoloso. Sembra che un destino ineluttabile consegni il pensiero progressista ad un gioco di rimessa, di piccole ripicche, di sfide personali. Eppure… torniamo a fare i conti. Se misuriamo i risultati sugli aventi diritto al voto le elezioni del 12 febbraio ci dicono che in Lombardia il partito della Meloni ha raggiunto il risultato dell’8,6% , la Lega il 5,7%. Nel Lazio FDI sarebbe al 10,79% e Salvini al 2,7%. Ora, è evidente che ipotizzare una partecipazione al 100% è pura utopia, ma anche rifacendo il conto al 70% di voti espressi ( roba ordinaria fino a qualche anno fa) i fratelli di Giorgia salirebbero nel Lazio al 15,4% e in Lombardia al 12,2%...insomma ad averne di voglia di spazio ce ne sarebbe per ribaltare la situazione. Certo per farlo bisogna cambiare, muoversi, agire e smetterla una buona volta con "le parole celebrative del nulla"(Faber dixit).

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L’eroe di oggi è l’imprenditore americano Bryan Johnson, salito alle cronache nel 2013 per aver venduto la sua società alla modica cifra di 800 milioni di dollari.

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Altro che caro-benzina e caro-bollette !  Altro che attentati quotidiani ai diritti acquisiti siano essi sociali o lavorativi ! Altro che disastro umanitario nelle città rase al suolo da bombardamenti feroci !  Il problema che ci assilla è stabilire se sia o meno opportuno che il presidente ucraino  Volodymyr  Zelens'kyj  reciti uno spezzone di due minuti nell’immancabile saga nazional-popolare che ogni anno si ripete in quel di Sanremo.  Sono giorni che giornali e politici si dividono e discutono sull’argomento come se fosse una cosa seria, come se ci fosse da stabilire ancora qualcosa nella terribile vicenda della guerra scatenata dalla follia di Putin o come se fosse ancora necessario sentirsi ripetere le richieste di aiuto del popolo ucraino. Sembra quasi di vedere incarnata una delle profezie di Guy Debord nel suo “La società dello spettacolo” quando afferma che “lo spettacolo è il cattivo sogno della moderna società ..che non esprime in definitiva se non il proprio desiderio di dormire. Lo spettacolo è il guardiano di questo sonno”.  E mentre si sonnecchia davanti  a qualche nota strimpellata tra pailettes e cotillons, si finge di non vedere che dallo scenario internazionale si dilegua sempre di più la diplomazia per lasciare il campo ad una escalation che sta nei fatti più che nei farneticanti comunicati del Cremlino.  Fin dall’inizio del conflitto ( che a breve celebrerà il suo primo anno di orrori) il ruolo degli Stati Uniti d’America è stato ambiguo e più indirizzato ad alimentare lo scontro che a cercare una possibile soluzione. Sulla scia della politica americana è andata ovviamente la Nato, formalmente un’alleanza militare tra i paesi occidentali, sostanzialmente  un consorzio al servizio deli interessi della superpotenza a stelle e strisce. Poteva provarci l’Europa a recitare finalmente una parte da protagonista, certamente sostenendo la difesa dell’Ucraina dall’assalto vile e ingiustificato dei  russi ma contestualmente attivando pressioni, canali  alternativi,  dialoghi possibili e impossibili per cercare di comporre una situazione che contiene rischi incalcolabili per tutto il continente. Si è invece scelto di cacciare la parola pace dal vocabolario delle istituzioni, emarginandone la citazione quasi come uno apostrofo tra le parole guerra e vittoria. Si è scelto di alimentare un nazionalismo che da sacrosanto diritto alla sopravvivenza rischia di degenerare in volontà di rivalsa. Di pochi giorni fa la dichiarazione da parte U.S.A. che “autorizza” l’Ucraina ad attaccare la Crimea. A parte che verrebbe da chiedersi in base a cosa gli Stati Uniti “autorizzino” uno stato sovrano ad attaccare un territorio per quanto conteso ( fino al 24 febbraio 2022 non più di tanto, per la verità), ma ad una affermazione simile seguita da un nuovo e massiccio supporto militare come ci si attende che reagisca Mosca ? Quale credibilità può avere la richiesta di colloqui telefonici che il primo ministro tedesco Scholtz continua ad avanzare verso Putin ? E’ chiaro a tutti chi sia stato l’aggressore e chi sia stato l’aggredito.  E’ chiaro o no che le grandi multinazionali degli armamenti stanno facendo profitti inverosimili sulla pelle della popolazione ucraina ? E se poi davvero la Russia sfonda le linee ( come i più avvertiti osservatori paventano immaginando una guerra di logoramento nella quale è chiaramente avvantaggiato chi ha ben più ampia disponibilità di risorse da macellare)  che accadrà ? E’ chiaro a tutti che non vi è un possibile bilanciamento dei torti e delle ragioni, ma è altrettanto certo che nessuno sta operando significativamente per arginare questa guerra. Henry Bergson scriveva ex-post riguardo  al primo conflitto mondiale che questo, analizzando il contesto e  prima di scoppiare,  appariva nello stesso tempo “ come probabile e come impossibile”. E noi pensiamo a Sanremo………    

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Sostiene Perluigi Castagnetti che una eventuale vittoria di un candidato riconducibile alla sinistra nella estenuante querelle della successione di Enrico Letta, provocherebbe l’abbandono del PD da parte dei cattolici. L’affermazione dell’ultimo segretario del Partito Popolare Italiano appare invero significativamente presuntuosa. Castagnetti identifica, così affermando, il mondo cattolico con quello ex democristiano come se fosse un blocco monolitico, non scalfito dal trascorrere del tempo e dall’evoluzione sociale ed ideale. D’altro canto questa presunta falange non era tale neppure negli anni d’oro della “balena bianca”. Certamente allora gli “eretici” erano una minoranza spesso silenziosa quanto influente (si pensi al rapporto di Berlinguer con Franco Rodano e Antonio Tatò). Ora, questa pretesa di identificazione contribuisce, insieme ai molti altri limiti, a rendere una volta di più evidente il fallimento del progetto del Partito Democratico. L’idea era meravigliosa, unire finalmente i progressisti abbattendo le barriere costruite negli anni dal materialismo e dal clericalismo. La pratica è presto naufragata nella ricerca costante di un compromesso al ribasso con conseguente rinuncia agli ideali e allontanamento dalla realtà. Il PD si è trasformato inesorabilmente ma implacabilmente trasformando questo partito nell’ultima versione della DC, quella la cui sola ragione d’essere era ormai la partecipazione al potere quale che fosse la formula, quale che fosse l’idea di paese. Con una aggravante letale: questa classe dirigente non ha nemmeno un briciolo del senso dello Stato e delle Istituzioni che si respirava nella  vecchia DC. In tutto questo dovrebbe Castagnetti spiegarci cosa c’entrano i cattolici… Semmai c’entra quella modalità di far politica, svincolata dal paese reale e immersa solo nelle logiche di palazzo. C’entra una concezione conservatrice della società, un po'classista, certamente capitalista e abbastanza rigidamente legata alla formula manipolatoria con la quale la Chiesa ha giustificato per secoli il potere proprio ed altrui ovvero “dei poveri sarà il regno dei Cieli”…nell’attesa quello terreno ce lo gestiamo noi.. Questa commistione di burocrazia, arroganza, superficialità, hanno massacrato un’idea che sarebbe potuta essere grande. Ed i cattolici in questo contesto? L’insegnamento evangelico, in molte parti esaltato e riportato all’evidenza del mondo da un pontificato finalmente attento alle esigenze di chi ha meno, non è mai stato così distante dalla concezione egolatrica e sfruttatrice della società attuale. Nemmeno vale a prefigurare l’abbandono della scelta progressista l’agitare di nuovo lo spauracchio del comunismo. La storia si è incaricata di liquidare un’ideologia tanto capace di forte analisi critica quanto incapace di concrete costruzioni pratiche. Quel che resta sono le diseguaglianze, di reddito, di opportunità, di genere. Quel che resta è il razzismo nemmeno troppo strisciante. Quel che resta sono i posti di lavoro che mancano. Quel che resta è un sistema economico incentrato sul profitto esasperato ed un sistema sociale sempre più alimentato da un edonismo arido. Basta scorrere rapidamente le scritture per trovare molte affermazioni che possono costituire la base di una idea politica che punti ad una società più giusta. Tra i cattolici ci sono anche quelli che stanno col  Vangelo di Luca (“Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”) o con le parole di San Paolo ( “Non si tratta infatti di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza”) e non solo gli emuli di Giovanni XXII ( che affermava che era da considerarsi eretico chi affermava che Gesù Cristo e gli apostoli non avevano mai posseduto niente). Si tratta di scegliere da che parte stare.

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Segnali da un futuro che non vorremmo vedere. A lanciarli il più visionario degli imprenditori Elon Musk, che dietro gli immaginifici progetti di automazione di qualsivoglia genere e di  esplorazione extraplanetaria mantiene ben salda la sua ferrea fiducia nel liberismo economico più sfrenato e de-regolamentato, un concetto di economia dove , per riassumerla con un vecchio detto popolare delle mie parti “i soldi vanno ai soldi e i pidocchi alle costure”. Dopo essersi esibito nello spericolato acquisto della piattaforma social “Twitter ” l’uomo che viene venerato come guru della tecnologia e del progresso ma che per raccattare denaro usa metodi assai più tradizionali,   ha avviato un piano radicale di licenziamenti e di sospensione dei diritti ( i non molti che hanno i lavoratori negli U.S.A.) fino a chiedere  ai dipendenti di lavorare in maniera “incondizionata”. Cosa significasse lo si è capito quando ha cominciato ad installare letti negli uffici …incondizionata in senso letterale: senza condizioni e di conseguenza senza garanzie, tutele, orari . Purtroppo non è che l’evoluzione di un modello economico che sta espandendosi a vista d’occhio anche in Europa e sicuramente da tempo in Italia . Tra contratti precari , pagamenti al nero, ricatti più o meno velati, multinazionali che arrivano, scippano denaro pubblico e poi traslocano, il quadro appare a tinte fosche. Il nuovo governo di destra non si è limitato a prendere ( legittimamente) posizione in favore del proprio elettorato di riferimento, ma si è spinto fin dal discorso programmatico della neo-premeir Giorgia Meloni a dichiarare che “lascerà mano libera alle imprese”. Ora; l’abbattimento sistematico delle tutele è già stato avviato anni fa con l’obbrobrio del “jobs act” ( e poi ci si sorprende di  certe convergenze ?) ma teorizzare il “laissez-faire”economico in maniera tanto netta non capitava di sentirlo da anni. Il tutto accompagnato da un irritante ritornello sulla necessità che la gente ritrovi “la voglia di lavorare”….E’ anche vero che tutto il sistema fiscale e burocratico che grava il lavoro autonomo avrebbe bisogno di una radicale riforma che garantisca costi ragionevoli  e tempi certi. Lo stesso vale per il mal discusso “reddito di cittadinanza”, strumento utile e comune a tutti i paese evoluti ma da noi fatto in maniera approssimativa e sopratutto carente di controlli. Premesso questo però,  “lasciare mano libera” in questo paese significa moltiplicare la precarietà e lo sfruttamento, ampliare le diseguaglianze, allargare il già ampio fossato che separa l’economia del Nord da quella del Sud. L’esperienza non ci racconta (salvo eccezioni) ) di un ceto imprenditoriale evoluto e pronto a sfruttare la positività della riduzione dei vincoli per aumentare le opportunità,  quanto piuttosto quella  di un mondo che vive in tante realtà cercando le scorciatoie per evitare gli obblighi e moltiplicare i profitti costi quel che costi e se nessuno verifica come questo si ottiene tanto di guadagnato. La “voglia di lavorare” ( formula che sulla bocca di certi personaggi spingerebbe ad invitarli quantomeno davanti ad uno specchio)  non risulta che manchi ( anche qui con le ovvie e dovute eccezioni) . Quello che risulta mancare è invece è il lavoro, stratolato tra pandemie, economie di guerra e speculazioni. Manca beninteso quello pagato in maniera corretta, quello che paga lo stipendio ed anche i contributi, quello che non ricatta e non umilia, quello che non ti impone di lasciare casa e andare a mille kilometri di distanza. L’altro, quello del sottobanco, dei tre euro all’ora invece si trova, ma non si deve dire.  Il tema del lavoro non può avere come svolgimento l’importazione della “brutalità padronale “(così l’ha definita Michele Serra) alla Elon Musk. Deve costituire un obiettivo comune di chi intraprende e dei chi offre manodopera con il progetto di ricostruire un paese. Altrimenti si guida ( come piace al Tycoon americano, senza autista e si rischia di sfracellarsi contro i muri.