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Lavoro e imprese tra crisi Covid e diritti a rischio.

Sognare di lavorare o lavorare è un sogno ? tempo da dubbi  marzulliani e non dipende solo dalla crisi generata dalla pandemia Covid 19. Certamente il blocco delle attività durato tre mesi ha aggravato la situazione, ma il contesto era già deteriorato prima in fatto di diritti e di progressiva perdita del potere contrattuale da parte dei  lavoratori. L’aria è cambiata da tempo, sarà stato il riflusso o il progressivo riaffiorare di sedimenti reazionari, ma in tema di lavoro nell’ultimo decennio i passi del gambero si contano numerosi. Sarà perché da tempo il paese viaggia su livelli produttivi modesti, con una domanda interna in calo costante, livelli di produttività modesti e capitalizzazione delle imprese bassissima, sarà perché sono venuti calando spirito solidaristico e volontà di mobilitazione in favore di un individualismo stimolato ed esasperato, ma è ormai chiaro che in questo quadro da tempo la parte forte in tema contrattuale è quella dei datori di lavoro. La mancanza di una vera politica industriale fa il resto.

Non si vedono progetti, non c’è un’idea del futuro da parte di una classe politica sempre più occupata a zappettare gli orticelli del piccolo o grande potere personale. Il ministro di turno in genere cerca di gestire le crisi che si presentano all’ordine del giorno ( partendo rigorosamente da quelle più mediatiche ) ed ottenendo in genere soluzioni tampone che saltano al minimo contrattempo.  In mezzo ci finiscono sempre i dipendenti, la variabile unica sulla quale si decide di intervenire quando devono essere ottenute economie di scala. Qui si innesta poi un problema storico della nostra imprenditoria. Fatte le dovute eccezioni il tessuto produttivo nazionale è fatto di medie e piccole aziende che vivono con capitale proprio modestissimo ed indebitamento elevato ( verso le banche più che verso i fornitori ).  Soldi in azienda non se ne mettono da tempo e alle strette di mercato si risponde invariabilmente chiedendo aiuto allo Stato in materia fiscale o occupazionale. Va oggettivamente detto che la pressione delle tasse è folle e prosciuga oltre la metà dei guadagni prodotti , finendo con il giustificare l’appello alle istituzioni quasi come una chiamata di corresponsabilità verso un socio; ma il problema è più ampio e investe lo stesso concetto di cultura d’impresa. Evidentemente una maturazione di una diversa concezione di fare azienda dovrebbe (potrebbe) essere guidata con provvedimenti opportuni, ma si torna a quanto già detto: mancano da almeno ventanni  ( e forse di più) una precisa volontà politica ed un progetto. Ci si è limitati di volta in volta a dare contentini a destra e a manca, a barcamenarsi tra assistenzialismo e liberismo spacciando quest’ultimo come forma legalizzata di evasione o elusione. Sul fronte dei diritti ci ha pensato poi “l’innovatore” a scardinare lo statuto dei lavoratori abolendo l’articolo 18 e sostituendolo con l’immaginifico slogan del “jobs act”.

In concreto 16,7 miliardi di sgravi fiscali concessi per assunzioni a falso tempo indeterminato ( dopo tre anni si può interrompere il rapporto, il “contratto con ricatto incorporato” come lo chiama il giuslavorista Piergiovanni Alleva  ) che hanno generato lo stesso numero di stabilizzazioni rispetto al quinquennio precedente. Ovvero non serviva. Le aziende assumono se e quando serve; poi se ti fai carico delle imposte (anche qui assurdamente alte) magari qualcuno in più, per qualche tempo lo si può anche far entrare, salvo poi sciogliersi dai vincoli non appena finisce il beneficio. I dati Istat usciti pochi giorni fa evidenziano che per la prima volta l’ascensore sociale vede prevalere chi peggiora la propria condizione rispetto a chi la migliora (dati pre-pandemia) e Confindustria torna a chiedere mano libera nella gestione delle risorse (termine orribile). Crescono i settori dove le tutele sono ridotte ai minimi termini ed alla Caritas di Milano da marzo gli accessi sono saliti del 66%. Le grandi multinazionali estere vengono in Italia a fare manovre strane, come Arcelor Mittal a Taranto, oppure a mungere la mucca statale (FCA). Fino a che la politica sarà succube dell’economia, in un paradossale avveramento della nota teoria marxiana ma ad esiti ribaltati, sarà difficile trovare la via d’uscita. Cercasi disperatamente visionari con un sogno in testa per questo paese e la volontà di metterlo in pratica.