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Se n’è andato a 60 anni Diego Armando Maradona./

Te ne sei andato così, di colpo, proprio quando sembrava che ti fosse riuscito anche l’ultimo dribbling, quello più difficile di una partita che da anni era ormai diventata una guerra, una serie di agguati nei quali purtroppo spesso andavi a cacciarti da solo. La nera signora padrona di questo anno di merda è stata più violenta del rude Goikoetxea, più perfida dei tanti che hanno sfruttato la tua popolarità ed il tuo denaro negli anni dei trionfi e ti hanno poi abbandonato, più subdola dei molti nemici che ti elogiavano davanti e ti colpivano alle spalle. Te ne sei andato, Diego e ci lasci un vuoto dentro che solo che chi ama il calcio ed ha avuto la fortuna di vederti giocare può capire fino in fondo.  Maradona il fuoriclasse, Maradona il matto, Maradona l’ingestibile; ma Maradona che vince da solo un mondiale e che conquista due scudetti a Napoli ( dopo di te non ci ha più vinto nessuno). Maradona che si inventa le giocate più incredibili, che segna di testa dal limite dell’area, che centra il “sette” della porta da centrocampo, Maradona che segna di mano ma che poi  si “beve”mezza nazionale inglese e deposita in porta il pallone del più incredibile, meraviglioso, pazzesco gol della storia del calcio. Maradona che si allena solo se ne ha voglia e se non è andato a letto all’alba, ma anche Maradona che resta sul campo a fine allenamento, ad insegnare ad un ragazzino ( era Zola) a calciare in porta dalla bandierina. Maradona egocentrico protagonista di mille polemiche, ma anche Maradona che nelle vittorie manda avanti i gregari, celebra Di Napoli e Ferrara, esalta Burruchaga.  Per lui si sono spesi tutti gli aggettivi possibili, nel bene e nel male. Negli anni italiani conviveva con un altro grande campione, Michel Platini, la razionalità al servizio dell’estro, un personaggio che viaggiava con i piedi ben piantati per terra, algido e presuntuosamente consapevole della sua bravura. Diego no, non aveva regole, non rispettava orari, non lo potevi chiudere dentro uno disegno preciso;  però è stato il calcio, lo è stato in senso ontologico, ne è stato l’essenza più intima. La gioia di giocare a pallone, l’irriverenza e lo spunto della genialità, lo sberleffo alla fisicità ottusa,  lo scacco matto al tatticismo esasperato, agli schemi mandati a memoria, alla geometria al posto del cuore. Non c’era logica quando in campo c’era questo ragazzo che  Brera avrebbe detto “dai fianchi opimi”, che regalava al marcatore di turno centimetri e peso ma che sapeva  sgusciare via dalle grinfie del più arcigno dei controllori con una piroetta, un passo di danza, un movimento del corpo. Chi non ha avuto la ventura di goderne dal vivo vada a rivedersi i sui gol al Belgio nella semifinale di Mexico 86. Se Beethoven fosse stato contemporaneo del ragazzino di Lanus che sognava i grandi palcoscenici del  calcio gli avrebbe  dedicato il suo inno alla gioia perché lui in campo era l’allegria e la festa. Dopo l’ultimo mondiale, quello americano, che ti fu scippato in maniera proditoria e ingiusta, hai imboccato una strada maledetta, senza riuscire mai a dare concretezza alle risalite ed invece scivolando sempre più in basso nelle ricadute.  Ora che tutto il mondo ti piange sono certo che ci saranno gli angeli in cielo che fanno festa. Con te in mezzo a loro ( non potrai che essere un angelo perché il candore della tua anima non si è mai sporcato del fango che ti cadeva sulla pelle ) diventeranno imbattibili.

Paolo Galletti