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L’orrore ci sfila dinanzi agli occhi, ogni giorno più terribile, ogni giorno più violento. Dinanzi alle immagini devastate e devastanti che arrivano dall’Ucraina l’occidente è chiamato non solo ad un sostegno umanitario, finanziario, solidale, ma anche ad una presa di posizione forte davanti all’aggressiva prepotenza di Putin. La questione centrale che interroga oggi tutto il mondo che sostiene la democrazia come sistema politico ed i diritti civili come valori fondanti delle proprie società è come fermare quello che appare non solo un rigurgito di nazionalismo ma anche un progetto di espansionismo con l’obiettivo dichiarato di mettere fuori gioco la parte ovest del mondo, quelle democrazie che il dittatore russo definì già nel 2019 in una intervista al Financial Times ( ignorata dai più  come molti altri segnali  che venivano da quella parte)  “obsolete ed inadatte a gestire la modernità”. Tutto concorre a far ritenere che la vicenda iniziata il 24 febbraio non sia soltanto un regolamento di conti regionale, un mix tra il complesso dell’accerchiamento che angustiava il regime sovietico ed una riedizione dell’antica aspirazione zarista allo sbocco sul “mare caldo”, ma piuttosto una prova generale di un’idea più vasta di ridefinizione del mondo. Per questo diventa ora inattuale discutere sulle origini del conflitto, sulle colpe e le violenze  reciproche ( che pure ci sono), su quello che gli ucraini hanno fatto o non fatto nelle zone del Dombass già da otto anni martoriate da una guerra silenziosa ed ignorata per ragioni d’interesse da parte di tutti. Per questo diventa solo un  generoso esercizio di utopia schierarsi con chi ritiene che non si debba sostenere la resistenza di Zelenski e dei suoi concittadini anche con l’invio delle armi fermandosi, se ancora si può e fino a che si potrà, sulla soglia di una guerra di più ampie dimensioni che avrebbe conseguenze inimmaginabili.  Non si tratta qui di assecondare istinti guerrafondai ma semmai di evitare ulteriori e maggiori disastri. Solo ogni tanto e troppo poco ci si richiama alle vicende del 1938, all’atteggiamento remissivamente suicida che assecondò ed insieme stimolò le velleità allora germaniche . Le similitudini sono sinistramente numerose ed in parte già compiute. Oggi ci sono dati di fatto che sono incontrovertibili: c’è un aggressore e c’è un aggredito. Potrebbe essere sufficiente ma  non basta. C’è da una parte una concezione della politica come potenza che ci riporta indietro di ottanta anni  e dall’altra il rispetto delle regole e dei valori per i quali i nostri padri ed i nostri nonni hanno combattuto e sconfitto regimi altrettanto oppressivi e violenti di quello che regna a Mosca. Consentire a Putin di vincere l’Ucraina significa esporsi al rischio che domani la fame di potere dell’oligarca del Cremlino si spinga altrove; alla Moldavia ( di cui già occupa una piccola parte, la Trasnistria, anche qui nell’assenso e nel silenzio colpevole di chi avrebbe dovuto impedirlo) oppure ai paesi baltici, in un crescendo di tensioni che porterebbe inevitabilmente laddove si vorrebbe evitare di cadere oggi,  con l’aggravante di avere nel frattempo moltiplicato la forza, la sicurezza, la protervia dell’aggressore.  Per questo non possiamo permetterci di restare neutrali. Sebbene non si debba nemmeno per un istante smettere di lavorare per una soluzione diplomatica che porti alla fine del conflitto, sebbene alla fine resti convinto che comunque evolva la situazione sul terreno (poche possibilità oggettive per gli ucraini) Putin vincerà la battaglia ma perderà la guerra, perché non ha contro solo il modesto esercito ucraino ma l’intero popolo di quella nazione (e la storia, ignorata e vilipesa, si prenderà la rivincita sull’arroganza perché si sa che “el pueblo unido jamà serà vencido”. ) non possiamo consentire che lo logica della violenza e dell’aggressione torni ad essere la regola che informa le relazioni internazionali.