Bercia nei social con noi!

Scorrono sui media, inesorabili, immagini di orrore e di paura. Non è solo terrorismo. Non è solo guerra. E’ la terribile conseguenza della semina ottusa e meticolosa, insistita e sfacciata, dell’odio. Il rifiuto dell’ascolto, del  confronto di idee, la negazione del dubbio in nome di certezze spacciate come dogmi. Non è soltanto una caratteristica della recente, orribile deflagrazione di violenza che sta investendo Israele e Palestina, è la cifra di una sempre più diffusa “weltanschauung” a livello mondiale;  dall’istigazione perpetua di Donald Trump fino alle sparate mediatiche di Salvini & C. passando per il rinnovato segregazionismo di AFD in Germania, i  vergognosi provvedimenti di Sunak un Gran Bretagna, il razzismo nemmeno mascherato di Orban e le pretestuose motivazioni dell’altro macello in corso da due anni in terra d’Ucraina. Tutto poi  si amplifica nella grancassa di un giornalismo sempre meno al servizio della verità  e sempre più asservito ai potentati,  pronto a replicare all’infinito slogan e bugie purché questo serva a puntellare un racconto che alimenti  l’insicurezza, la paura, l’incertezza. Tutte cose che fanno vendere di più,   con tanti saluti all’ipocrisia del pluralismo e del confronto. Anzi, sempre di più conta solo chi urla più forte. Conta, con la subdola forza irresistibile dei media moltiplicata dai social,  alimentare un racconto che definisca un’opinione pubblica  schierata e divisa sul fronte del bene e del male. Così pur a fronte della oscena invasione dell’Ucraina si è scelto di ignorare le tensioni già da anni in essere nelle regioni contese oppure di utilizzarle a contrario come giustificazione dell’ingiustificabile.  Stesso copione in questi giorni: tutti con Israele e ci mancherebbe. Ma se questa diventa la giustificazione per un sillogismo che porta a dire Hamas uguale a Palestina si torna a ricalcare solo ed esclusivamente il viale dell’odio al termine del quale stanno i massacri dei sanguinari terroristi e le rappresaglie di chi pare avere incredibilmente dimenticato cosa abbia significato la responsabilità collettiva attribuita ad un popolo. Ciò che appare preoccupante è che  in minore questa distorta dialettica alimenta quotidianamente i dibattiti anche nella “civilissima” Europa con la crescente volontà di identificare il nemico invece che l’avversario, il diverso dal presunto standard legato a valori che si fatica ad intravedere nella storia di un continente attraversato nei secoli da mille popoli diversi.  Se la parola d’ordine diventa quella con la quale lo scrittore israeliano Etgar Keret in una intervista a “La Stampa” riassume la politica del decennio di governi Netanyahu “Chi non odia tradisce”, siamo solo all’inizio di un dramma collettivo i cui confini appaiono  imperscrutabili e pericolosi.